Il #Binario18 si prolunga fino al mare: Francesco Malavolta, fotogiornalista, racconta vite salvate e vite perdute


Che sia placido e liscio come l’olio o in tempesta, squassato dai cavalloni, il mare è insidioso: che siano le onde azzurre del Mediterraneo o quelle grigio piombo della polemica e dell’informazione faziosa, perdere l’orientamento è facile. Se, poi, si accetta il rischio di navigare a vista, servono soccorsi urgenti, in mare come davanti a un computer o alla televisione. 

Perché capire è il primo passo per essere in grado di accettare e accogliere: non è una marea umana indefinibile quella che la risacca del Mare Nostrum, il Mediterraneo che giustamente gli antichi romani consideravano un laghetto domestico, getta sulle nostre coste, sulle coste dell’Europa. E’ composta da uomini e donne, spesso bambini (circa il 40%, stando alle cifre fornite da Medici Senza Frontiere, una delle ONG in mare con la nave Aquarius), in cerca di una speranza e di un futuro per sé e per le proprie famiglie, persone che magari non avrebbero neanche avuto il desiderio di approdare in qualche modo in Europa, ma che in realtà cercavano soltanto un impiego nelle strutture turistiche in Libia.

Conoscere per capire e per accogliere

Proprio per capire meglio, per mettere l’accento sul lato umano, non umanitario, della situazione dei migranti, dal Mediterraneo ai Balcani, l’Associazione Legal@rte ha allestito una mostra, Binario18, in cui è tracciato un parallelo tra l’immigrazione che negli anni cinquanta ha caratterizzato il nostro Paese e quella che oggi interessa mezzo mondo. Dopo Palazzo Barolo, MRF Mirafiori, il Centro d’Accoglienza Fenoglio di Settimo Torinese, il Centro Servizi Vol.To a Torino, la mostra sarà a Perugia, Palazzo della Penna, dall’11 aprile al 7 maggio. Il racconto della parte attuale di questo viaggio nella storia dell’immigrazione e delle persone che l’hanno fatta, è affidato alle immagini di Francesco Malavolta, fotogiornalista  che dal 2011 documenta quel che accade alle frontiere europee per conto dell’Agenzia dell’Unione Europea Frontex lungo i confini marittimi e terrestri del continente.

“Oltre l’82% delle persone che vengono salvate nel Mediterraneo – racconta Malavolta, -, avrebbe voluto fermarsi in Libia per lavorare, ma è stato costretto a fuggire dalla situazione instabile che si è creata nel paese, non avrebbe mai pensato di venire in Italia e in Europa. Stiamo parlando, è chiaro, di  coloro che vengono dall’Africa subsahariana, non di chi fugge dalla Siria, dall’Iraq, dal Pakistan. Ma è anche vero che dalla Libia arrivano più che altro africani”.

Emergenza operativa, non umanitaria

Che cosa la colpisce maggiormente del modo in cui viene raccontata la situazione nel Mediterraneo?

“L’approssimazione. Spesso si definisce emergenza umanitaria, ma non è così. Casomai, è un’emergenza operativa, perché magari a Pozzallo o a Catania o Augusta sbarcano contemporaneamente migliaia di persone senza nulla, a cui servono scarpe, vestiti, cure, cibo un posto dove dormire. Questa è un’emergenza operativa, ma non umanitaria. Altri sono i casi di emergenza umanitaria, quelli del Libano o Giordania, per esempio, dove il numero dei profughi è pari alla metà della popolazione residente. Nel nostro caso mi pare una definizione fuori contesto”.

Eppure gli sbarchi sono percepiti come una marea umana montante e inarrestabile che sta invadendo l’Europa.

“Mah, che vuole che le dica? Se 181mila persone nel 2016 e 153mila nel 2015  che sbarcano sulle nostre coste, delle quali più di due terzi non vuole fermarsi in Italia, sono un’emergenza di questa portata non so davvero che dire. E’ vero che è necessario organizzarsi, che servono alloggi, vestiti, cibo, a volte cure, ma l’emergenza è solo nei primi giorni, in porto o subito nelle zone circostanti. Poi bisogna organizzare un sistema di accoglienza per cui non ci siano comuni che accolgono una percentuale rilevante di persone rispetto alla propria popolazione e comuni che non accolgono affatto”.

Quindi ciò che accade nel Mediterraneo non è un problema?

“Certo che è un problema, è un dramma umano di persone che rischiano la vita per cercare un futuro migliore, per fuggire da situazioni invivibili e che restano vittime di una situazione più invivibile ancora. E’ il dramma di bambini soli, di famiglie che non hanno più nulla, di vite umane inghiottite dal mare, di mercanti di vite che si arricchiscono sulla disperazione delle persone”. Oltre cinquemila persone hanno perso la vita nel 2016 nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Si stima oltre 30.000 morti negli ultimi 20 anni. Ecco la vera emergenza umanitaria.

E chiamiamole inesattezze…

La polemica del momento è quella sui soccorsi prestati troppo vicino alla Libia da parte delle navi umanitarie. Con le Procure che  aprono inchieste per capire come funzioni operativamente l’azione delle navi delle ONG nel Mediterraneo.

“Mi stupisce una polemica che non ha ragione di essere. La macchina dei soccorsi funziona in modo integrato, quindi il centro di coordinamento, che è quello che riceve e smista le chiamate di soccorso, decidendo quale nave deve intervenire, ha sempre perfettamente chiara la situazione”.

E come funziona questa integrazione?

“Innanzitutto bisogna specificare che la strategia dei traffici è cambiata.. Adesso a guidare il gommone è sempre un migrante, scelto a caso e minacciato, a cui vengono impartite istruzioni sommarie e consegnato un telefono satellitare con il numero di telefono del centro di coordinamento o di altre istituzioni. Al primo problema, dal gommone che imbarca acqua a un malore a bordo, il timoniere telefona e viene guidato nel reperimento delle coordinate (sui cellulari satellitari si può rilevare la propria posizione. A quel punto parte la macchina dei soccorsi: la nave più vicina viene allertata e inviata in soccorso e scattano le operazioni di recupero. E’ importante capire che in queste condizioni anche un’ora può fare la differenza tra la vita e la morte”.

E poi?

“Avvistato il gommone i soccorritori (tutti professionisti) cercano di prevenire eventuali incidenti, distribuendo a tutti i giubbotti di salvataggio, operazione complessa e difficile, perché tra la paura e le precarie condizioni del gommone frequentemente qualcuno cade in acqua o addirittura il gommone affonda. Quindi tirano  tutti a bordo delle lance e li portiamo sulla nave”.

E il gommone?

“Se non è affondato, resta lì. Nella strategia dei trafficanti c’è anche questo aspetto: se il salvataggio avviene nei pressi della costa, loro possono uscire con un mezzo veloce e riprendere il gommone, che poi viene utilizzato per un’altra volta”.

E perché non lo affondano i soccorritori, allora? 

“Per una molteplicità di ragioni, tra cui non ultima l’esigenza di lasciare al più presto zone che possono essere pericolose. Però anche questo aspetto ultimamente sta cambiando”.

Medici e controlli sanitari

I naufraghi vengono sottoposti a controlli sanitari?

“Certamente. Il viaggio verso il porto dura parecchie ore o, nel caso in cui il porto che viene assegnato alla nave per lo sbarco sia tra i più lontani, come Taranto o Cagliari, anche qualche giorno. C’è tutto il tempo per le equipe mediche a bordo di effettuare gli esami necessari che poi, nei casi dubbi, proseguono una volta sbarcati. E comunque nessuno lascia la nave o porto se non controllato anche a terra da personale sanitario”.

Quindi il timore di epidemie è eccessivo?

“Francamente sì”

E chi sono le equipe mediche a bordo delle navi delle ONG?

“da Medici Senza Frontiere a Croce Rossa Internazionale da CISOM ed altri, anche in questi casi tutti professionisti”.

Agire o reagire?

L’impressione che si ricava dalla descrizione di come vanno le cose nel Golfo della Sirte è che stiamo reagendo alle mosse dei trafficanti: hanno cambiato strategia e noi facciamo il loro gioco?

“Non proprio. La priorità in mare è salvare vite umane, e, quei gommoni carichi all’inverosimile devono essere solo soccorsi, non importa da chì. In mare esiste una legge ben chiara, La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare”.

Eppure gran parte dei salvataggi è effettuata da mezzi delle ONG…

“Ah, davvero? In realtà solo circa il 20% delle persone recuperate è salvato da mezzi privati, il resto da unità mezzi messi a disposizione dagli Stati. Come già detto devono essere solo soccorsi, non importa da quale bandiera o appartenenza”.

Eppure il messaggio che passa è che le ONG abbiano qualche interesse in questa attività di soccorso, o peggio, qualche legame con chi organizza i traffici.

“Non so dove certa stampa prenda le sue informazioni. Per quello che posso testimoniare, avendo vissuto diverso tempo in mare, non ci sono legami di alcun tipo. I comandanti delle navi delle ONG sono grandi professionisti in alcuni casi ex ufficiali di marina la cui integrità non si può discutere, così come le associazioni attive nel Mediterraneo. il reato di traffico di umani è uno dei reati più crudeli a mio avviso. Ecco perché leggere tutto questo mi rattrista parecchio”. 

Proprio pochi giorni fa, il 31 marzo scorso, nel porto di Catania, a bordo della Aquarius, Medici Senza Frontiere e Sos Mediterranee hanno voluto rispondere, durante una conferenza stampa, alle accuse che da più parti vengono mosse alle loro attività: “Non abbiamo nessun contatto con chi sta in Libia – ha affermato Valeria Calandra, presidente di SOS Mediterranee Italia -, né tantomeno abbiamo mai ricevuto chiamate direttamente dalla Libia”.

Dignità nella sofferenza

Abbiamo parlato di numeri, procedure, polemiche. Ma la sua esperienza in mare è stata, crediamo, soprattutto umana.

“E’ stato l’incontro con tante storie, tante avventure, tanti drammi, uno diverso dall’altro. Questo è ciò che ho cercato di raccontare con le mie foto, alcune delle quali sono inserite nella mostra #Binario18: la mamma che in Turchia, non avendo trovato disponibilità di salvagenti, cerca di costruirne uno per la figlia legandole in vita due frammenti di cassette di polistirolo per il pesce; il giovane che fa la traversata in gommone con il completo blu, la camicia bianca, la cravatta, per dare l’immagine migliore di sé alla terra che lo accoglierà. Ho incontrato tante vite, delle quali avrei voluto sapere ancora di più, conoscere le storie, le motivazioni che hanno condotto ad affrontare un viaggio così lungo e un rischio così grande. E il pensiero va a tutte le storie che non ho potuto sentire, a tutti le vite che non ho incontrato, perse per sempre nel blu del Mediterraneo”.

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